Settore giovanile. Tra scoperta e perfezionamento
Riflessioni sul ruolo e sui compiti dell'allenatore di settore giovanile, responsabile di crescita tecnica ma anche umana. Prima parte.A chi è rivolto questo articolo?
Innanzitutto a chi avesse desiderio di un confronto; a questo dovrebbero servire questo tipo di pubblicazioni, mentre troppo spesso alle riunioni PAO, il momento interattivo è spesso ridotto (e non solo per colpe dei relatori) a un formale “ci sono domande?” che il più delle volte cade nel vuoto. Non credo di poter essere nella posizione di chi impone un punto di vista, ma nella mia esperienza sul campo ho sviluppato delle idee, delle convinzioni, che ho desiderio di mettere in discussione e questo potrebbe essere uno spazio interessante di confronto.
In secondo luogo, questo articolo nasce dall’idea di offrire ai giovani allenatori un punto di vista incentrato sul fare, non soltanto rivolto ai giocatori evoluti (in rete si possono trovare tonnellate di schemi, rimesse, situazioni tecniche di alto livello), ma anche e soprattutto idee rivolte alla costruzione di modelli di sviluppo degli atleti, fin dalle più piccole fasce di età.
Allenare nel settore giovanile
Allenare in un settore giovanile significa portare avanti un progetto di anni su dei bambini che strada facendo diventano adolescenti e quindi giovani adulti. Può essere una soddisfazione, ma vincere un torneo, un campionato o la partita settimanale non può rappresentare l’obiettivo del lavoro di un allenatore di settore giovanile: quando lavori coi giovani, il trofeo rappresenta un elemento secondario rispetto alla costruzione del valore. Non si deve allenare i giovani per fare carriera, non li alleni per il risultato, li alleni per alzare il loro livello e mantenerlo costante nel tempo. Vincere e migliorare i giocatori non sono due concetti in antitesi, ma due elementi consustanziali nella formazione di giovani atleti: le vittorie arrivano migliorando le potenzialità degli atleti e la vittoria più grande è aver formato il giocatore migliore possibile.
In questo senso un allenatore di settore giovanile deve essere prima di tutto un formatore, ma anche un ispiratore, un mentore, contribuendo alla crescita dell’atleta sotto più punti di vista.
Credo che i punti fondamentali in un percorso di settore giovanile siano:
- Formare un bagaglio tecnico, il più completo e profondo possibile.
- Preparare il corpo (in collaborazione col preparatore fisico, ove sia presente); non solo per quanto riguarda il potenziamento, ma anche per tutto ciò che riguarda la cura, la prevenzione e l’alimentazione.
- Formare e sostenere l’aspetto mentale, la gestione dello stress, gestione della vittoria/sconfitta, coltivare un’etica del lavoro appropriata agli obiettivi.
- Sostenere un’integrazione relazionale tra i giocatori perchè la pallacanestro è uno sport di squadra e gli aspetti di collaborazione e autonomia sono fondamentali per la costruzione di complessità sempre più grandi.
- Consapevolizzare l’importanza dei rapporti tra il giocatore e il resto del mondo, ovvero arbitri, staff, ma anche pubblico e genitori.
- Formare e sostenere il talento individuale.
Tante cose. Difficili.
Tante cose per cui serve un’alta competenza, un forte “saper essere”, ma è una sfida a cui nessun allenatore che svolge il proprio lavoro coi giovani può sottrarsi.
Il punto che da più tempo mi dà da pensare è l’ultimo: lo sviluppo del talento individuale.
Come si può sviluppare il talento? E soprattutto cos’è il talento?
Di definizioni più o meno appropriate sono piene i dizionari, ma la definizione di talento non è qualcosa per cui bastino parole, ci andremo sempre vicini senza apprezzarne mai la completa essenza. Il talento sta nei giocatori, nella loro capacità di trovare soluzioni improbabili a situazioni comunemente difficili.
Quindi il talento si allena oppure è qualcosa di innato?
Innanzitutto ci sono diversi tipi di talento.
Ci sono talenti fisici, giocatori che diventano grandi, che hanno un’eccezionale mobilità di base, elevazione, rapidità, stazza… ma non commettiamo l’errore di pensare che questo sia solo un elemento innato: certo l’altezza non si insegna, ma TUTTI gli elementi del gioco si possono accrescere con un attento lavoro sotto il profilo fisico.
Per questo ritengo fin da piccoli lo stimolo fisico debba essere costante e progressivo: elementi di preparazione atletica (correre e saltare), di coordinazione di base, di dissociazione degli arti, di resistenza allo sforzo fisico devono essere sempre inseriti all’interno degli allenamenti, sempre.
Il talento è anche di ordine relazionale. La pallacanestro è uno sport di squadra, saper stare insieme agli altri, saper condividere gli obiettivi, i percorsi, saper parlare agli altri (arbitri, avversari, compagni) è un elemento su cui grandissimi giocatori di alto livello hanno poggiato la propria carriera, nonostante, magari, lacune di livello tecnico o fisico.
Sarebbe un grosso errore pensare che anche questi elementi siano completamente innati. Sicuramente ciò che determina la capacità di relazionarsi di un giocatore affonda anche nella sua educazione famigliare e nel suo vissuto come persona al di fuori del campo di gioco, ma ci sono elementi che possono e devono lavorati all’interno del contesto sportivo sostenendo regole che aiutino i giocatori a orientarsi in un mondo che ha delle regole più o meno scritte, ma il cui rispetto o meno può semplificare o complicare il percorso (penso, per esempio al rapporto con gli arbitri)
Per non parlare del talento di cui più ci riempiamo la bocca: quello mentale.
Quante volte sentiamo parlare di resilienza, etica del lavoro, autonomia, egoismo funzionale alla squadra, collaborativo, avere le palle, non mollare mai, atteggiamento positivo, gestione dell’errore, puntualità, carattere…
Spesso, nel parlare comune, si dice che l’allenatore debba essere un po’ psicologo… beh, indubbiamente deve avere delle competenze in tal senso, ma non può sostituirsi in toto a figure professionali specializzate che possono offrire contributi sicuramente più significativi e fattivi. Soprattutto la parte mentale va presa con grande serietà, evitando di ridurre a presunte difficoltà mentali, le difficoltà tecnico/tattiche che un giocatore può trovare. Avere problemi in famiglia, con la ragazza o andare male a scuola, può sicuramente influenzare il rendimento di un giocatore, specie se giovane, ma se un giocatore non è stato allenato a usare la mano debole non la userà male durante una partita perché sta andando male a scuola.
La difficoltà di poter investire risorse in questa direzione però deve essere in qualche modo aggirata. E’ vero che gli elementi “mentali” possono avere una base innata nell’atleta, che molto dipendono dal percorso di vita delle persone, dalla loro educazione, ma sono elementi che possiamo allenare, possiamo stimolare, possiamo correggere, attraverso regole, esempi, coerenza e chiarezza del lavoro.
Allenare le probabilità o le possibilità?
L’aspetto tecnico è sicuramente quello su cui gli allenatori hanno la maggiore incidenza, è innegabile.
L’allenatore di settore giovanile deve insegnare a giocare… ma si può insegnare a giocare? Se ci pensate bene si possono insegnare le regole di un gioco, ma giocare è tutta un’altra cosa…
Alleniamo per schemi, è inutile negarlo. Abbiamo la tendenza ad allenare i gesti tecnici fondamentali attraverso uno schema ormai assodato che va dall’1c0 all’1c1, passando per step guidati che abituino alla lettura della situazione il giocatore.
È una cosa corretta, specie agli inizi delle esperienze formative: i giovani giocatori devono rendersi conto delle regole del gioco, degli spazi e dei tempi e di cosa, tendenzialmente è funzionale. Abbiamo la tendenza a insegnare i fondamentali sempre nelle stesse situazioni, in movimenti che sono spesso simili tra loro e in condizioni tutto sommato comuni.
Credo che il risultato di questo modello tenda ad allenare quelle casistiche più comuni con una certa efficacia, abituando i giocatori a una visione tutto sommato più piatta di come sia la realtà, riducendo la loro possibilità di espressione, riducendo la “scoperta” da parte del giocatore delle possibilità del gioco.
Pensate alla “lagrima” di Navarro, al tiro in corsa da 3pt di Huertas, alla partenza spagnola… questi non sono fondamentali comunemente insegnati (o almeno fino a poco tempo fa), ma adattamenti funzionali a un gesto o a una situazione che il singolo ha sviluppato per aggirare il problema, mantenendo il principio (fare canestro, prendere vantaggio da una partenza in palleggio, ecc…).
Lo schema non porta a ragionare. Noi vogliamo formare giocatori pensanti, in grado di risolvere situazioni, e quando dico schema non sto soltanto facendo rifermento a un set offensivo: uno schema è un “modello mentale e comportamentale astratto”, più questo schema è preciso e meno spazio ci sarà per una sua interpretazione originale.
Non sarà possibile inventare un modello individuale nuovo per qualsiasi evento del gioco, ma credo fortemente che i primi livelli di formazione di un settore giovanile debbano tenere conto di accompagnare e sostenere una visione personale e funzionale rivolta al più alto livello possibile.
Personale perché ogni individuo è diverso (per esperienza, per visione, per capacità fisiche) e funzionale, perché il gioco si riserva sempre di obbligare i giocatori a rispettare le regole di spazio/tempo: segnare sempre con 3” di tempo per prendere la mira non è funzionale (a meno che non si voglia giocare soltanto partite tra amici), così come passare senza guardare non va bene se la non si è in grado di mettere il ricevitore in condizioni di essere efficace al momento della ricezione.
Ritengo però che ci sia un momento per la scoperta (fasce basse di settore giovanile u13/u14/u15) e un momento per il perfezionamento (ultimi 2/3 anni del SG) e che sia fondamentale avere un elevata tolleranza all’errore “di scoperta” nella prima fase del percorso che via via deve abbassarsi man mano che il giocatore matura.
Bisogna sempre ricordarsi che non si smette mai di imparare e di perfezionarsi (abbiamo esempi continui di giocatori professionisti che aumentano e migliorano il proprio bagaglio anche in età molto avanzata), ma che le radici di una visione del mondo si acquisiscono durante il percorso giovanile: un qualsiasi giocatore ha possibilità di giocare per quasi 20 anni a livello senior, ma ha soltanto 7/8 anni di percorso formativo.
Il percorso nel settore giovanile diventa, quindi, un momento privilegiato per la formazione di una forma mentis particolare e un momento decisivo per poter sperimentare e scoprire le proprie qualità e limiti.
Condivisione e tolleranza sono quindi elementi fondamentali della formazione: molti giocatori credono di essere bravi a fare una cosa, ma la realtà dice che il loro atteggiamento tecnico non è funzionale al gioco e quindi bisogna renderli consapevoli dei limiti e dei rischi di certe esecuzioni, ma accade anche spesso che la poca tolleranza all’errore da parte dell’allenatore interrompa il percorso di crescita di un giocatore nello sviluppare alcune abilità.
Proprio per questo, credo sia inutile, se non addirittura dannoso circoscrivere la forma dell’esperienza solo a quelle circostanze standardizzate che risultino efficaci nel brevissimo periodo (penso a schemi di gioco, blocchi o quant’altro possa facilitare un’esecuzione efficace) nelle fasce più basse, per evitare di accorciare lo sviluppo cognitivo e la fantasia dei nostri futuri giocatori.
Allora cosa è fondamentale insegnare?
I fondamentali, sicuramente i fondamentali. Nella loro forma più grezza, aspecifica, giocando il più possibile 1c1 per evidenziare problemi da risolvere per costruire il bisogno nel giovane atleta di riaffrontare il gesto fondamentale per risolvere il problema.
Diceva Jordi Cruijff:
Il problema stava nel metodo di allenamento. Il Club perseguiva una filosofia e le squadre venivano educate con quello spirito, ma non il singolo. Con la sparizione del calcio di strada un giovane calciatore aveva perso in media dieci ore a settimana di allenamento dei fondamentali. La visione del club non teneva conto di questo cambiamento sociale; dando troppa importanza al gruppo non sviluppava adeguatamente gli aspetti personali, e di conseguenza, la tecnica di base di molti giocatori era mediocre. Ci si doveva concentrare di più sugli allenamenti individuali.
Il campetto ha smesso da tempo di essere il luogo di iniziazione al gioco, il luogo di iniziale scoperta, ma anche quello dell’espressione della fantasia, del desiderio, dell’esperienza di gioco personale e grezza, senza filtri.
Credo che una buona parte degli allenatori di pallacanestro non tenga conto di questa lacuna, concentrandosi con troppa enfasi sulla costruzione di strutture di gioco che mettano in risalto le qualità dei propri giocatori piuttosto che impiegare il tempo a disposizione nella formazione di giocatori che potranno interpretare al meglio il gioco in futuro.
Cruijff parla di allenamenti individuali nella Cantera del Barcellona… ma come è possibile trasferire quest’idea a una squadra u13 che fa tre allenamenti da 90’ alla settimana?
Sicuramente un lavoro non banale, che serve costruire nel tempo con grande attenzione.
Il tempo è un vincolo ed un bene prezioso: va gestito con attenzione. Più tempo dedico allo sviluppo delle abilità individuali, meno tempo avrò a disposizione per le spaziature, il gioco d’attacco, le rimesse ecc... qualcuno potrebbe storcere il naso, è comprensibile, ma sono assolutamente convinto che sia un errore.
Gli allenatori, spesso, sono afflitti dal male del controllo, del dover gestire, di dover instaurare nei propri giocatori un’idea definita, precisa, di cosa e di come si debba giocare la palla, di come si debbano gestire le situazione tecniche in campo, trattando i giocatori come esecutori del proprio pensiero. Se questo atteggiamento può essere adeguato per una qualsiasi squadra senior, trovo sia completamente assurdo in tutto il settore giovanile.
L’obiettivo non è formare la capacità mnemonica dei ragazzi, bensì quella cognitiva. Non devono ripetere uno spartito rigido, devono avere gli strumenti per interpretare un determinato modo le differenti condizioni del gioco
(Maurizio Viscidi)
Così come un genitore non sta semplicemente crescendo il bambino che ha, ma l’adulto che quel bambino sarà, così l’allenatore di settore giovanile deve preoccuparsi di formare il giocatore senior più completo possibile, che sappia adattarsi a situazioni e regole tecniche diverse.
Quindi, impostare allenamenti dove la parte di esperienza sui fondamentali diventa prevalente, dove la parte giocata diventa fondamentale e dove la correzione prende il posto del controllo.
Qualcuno, leggendo, sicuramente potrà pensare che siano gran belle parole, ma che vadano accompagnate con della sostanza... come si realizza quello che ho appena detto?
Velasco disse:
La chiave di tutto: trovare il modo. Quello non è mai uguale. E non è trasferibile. Ecco perché è così bello il nostro mestiere: le decisioni che ieri sono servite oggi non servono più
Quello che svilupperò nella seconda parte di questo articolo sarà proporre alcune esercitazioni, alcuni modelli di allenamento sulla base delle idee appena proposte e cercando di integrare le varie parti in modo da poter offrire un modello di riferimento.
Postato da Daniele Quilici
Allenatore Nazionale e Formatore Nazionale CNA di 2° Livello.
Livornese DOC, inizia la sua carriera di allenatore nelle giovanili labroniche di Junior Basket Livorno, Basket Livorno e Meloria Basket per poi iniziare a girare la Toscana (con tappe a Ghezzano, Use Empoli, tornando a Livorno sponda Don Bosco) e l'Italia (We're Basket Ortona e SanGiorgese Basket).
Nel suo curriculum anche il Trofeo delle Regioni alla guida della selezione Toscana ed esperienze di assistente al Nike Euroleague Junior Tournament e NBA Basketball Without Borders.
Ha collaborato per 4 stagioni con la psicologa dello sport Cristiana Conti (EA7 Milano and Montepaschi Siena).